sabato 3 gennaio 2015

03/01


3 gennaio 2015: al terzo giorno del nuovo anno non resuscitò e rimase orizzontale nel sepolcro. 03/01 preciso contrario di 13: malefico numero, non so mai come esorcizzarlo. Nel giorno in cui tutto inizia chiudo bottega: l'esperimento del blog, dell'antologia infomatico/letteraria ha raggiunto il suo capolinea. Non ho più idee, le stesse che poi mi sono venute tutte d'un tratto in passato. Ho perso le parole, mi sono state portate via. Ho scritto tutto quello che c'era da scrivere e, lo ammetto, dietro a questo blog mi sono creato un personaggio non da poco: dicono che è uno di quei pregi, lo scrivere, che piace alle persone e renderlo pubblico e fruibile le avvicina ancor di più. Ho avvicinato e perchè no, ammaliato più persone ma non è servito: così come ho perso le idee e le parola, alla stessa maniera ho perso l'ennesima persona che le suscitava. Mi ci specchiavo in questo essere che tanto le piaceva e non sono stato accorto alle parole che mi stava portando via e che ha rigirato verso di me. Si vive di ispirazione ed entusiasmo e, quando entrambi vengono stropicciati, allora la pensata di abbassare la serranda è di certo più reale. Ho dedicato tempo a queste pagine come consecutio di altro tempo ben speso: ora ho il tempo ma non più la musa ispiratrice e, pur deviando i pensieri in una sorta di rivalsa, mi risparmio deluse e deludenti pagine successive a questo 3 gennaio. Mentre spengo le luci, sento dentro ognuna di queste parole e le sento più  distanti di Marte, più lontane da quest'anima che è da sempre in lista per l’ennesima illusione, chissà magari possano raggiungerla dove ormai R. è arrivata: lontano. Mi promettere sempre di diventare gomma, perchè possano rimbalzarmi e non scalfirmi persone e brutture ed invece sono fatto di carta bianca: quello che è stato scritto di me, di più intimo è stato quello che non vedrete mai in un "personaggio costruito" ma ciò che vedreste passando per questo mio divano e, vi assicuro,di intimo è stato davvero esposto sia quando ero al settimo cielo che quando giocavo a briscola con satana. Dopo l'ultima illusione ormai s'è capito, mi allontano da quest' "hobby" di scrivere, oggi che ne subisco l'ennesima posso pensare che sul serio le persone, gli avvenimenti, i "ciao, piacere sono R." o "non sono pronta, addio" capitino come fulmini a cielo sereno grevemente: da queste pagine avevo sperato potesse essere diversa l’umanità presa da un’angolazione differente e invece eccola lì in tutta la sua vile realtà in un giorno senza sole dopo una notte senza sonno. Ad un passo dall'uscita rivedo l'insegna di questo blog per l'ultima volta accesa sui miei errori, che non sono stati grammaticali, e cerco dove posso aver sbagliato e di sbagli ne trovo a iosa: mea culpa, grave colpa mia se ho sbagliato ed ora questa chiusura è davvero l'unica soluzione che merito. Queste pagine, questi post, fino all'ultima parola ero certo fossero una chiave per aprire e non piede per sfondare la porta di chi si è avvicinato a me e che è stato motore di questo mio scrivere. Non conoscendo allora aperture diverse da questo mio scrivere, non posso permettermi di scassinare altre porte: non ho altri mezzi, la voglia, il piacere di piazzare pensieri e parlare di me con questo strumento. Sarò più magro nel mio essere e più spicciolo ma sono certo che siano quest'ultimi due aggettivi che più aggradano le persone che sono andate via: sarebbe stato opportuno essere l'esatto contrario di ciò che di me ho qui descritto, perchè non rimanessi ancora deluso. Non mi sento in torto per questa mia decisione ma mi sento sbagliato, non idoneo, come il 18 ad un esame per il quale avevo studiato tanto. Devo accettare che chi va via si porta con sè una parte di me e R. si è portata via troppi pezzi che, se ricomponessi i rimanenti, resterei non più il blogger, non più la cod@ del gatto, non più il personaggio intorno e soprattutto la persona che ero. La mia avventura finisce qui. La cod@ del gatto finisce qui.

mercoledì 31 dicembre 2014

L'ultimo dell'anno


31 dicembre 2014. Finalmente. Ultimo giorno di lavoro del vecchio o primo giorno di lavoro del nuovo anno. Riempio con acqua fino alla valvola la parte inferiore della moka. Poi il filtro e il caffè. Come diceva Gennaro del bar di Via Egiziaca a Forcella, ho fatto una montagnola e ho chiuso con la parte superiore della caffettiera. Ho stretto forte ma non troppo. Ho acceso il gas e aspettato che il caffè fosse uscito completamente dal suo beccuccio. Ho riempito una tazzina, l'ultima dell'anno o la prima del nuovo. Sorbito il caffè, sono uscito di casa per l'ultima volta nel vecchio o per la prima volta nel nuovo anno, ricordandomi, prima di chiudere la porta, di lasciare le chiavi dentro l’appartamento. 31 dicembre 2014: meno male che è finito l'anno vecchio. 1 gennaio 2015: chi ben comincia. Buon anno!

martedì 30 dicembre 2014

La laurea al tempo della crisi.


La laurea al tempo della crisi. Al bar all'angolo è stato assunto un neo-laureato in psicologia, un freudiano della moka. Sul cappuccino mi aspettavo cuori o spighe di grano e invece ha disegnato con con la schiuma l'Urlo di Munch: sono rimasto a fissare il cappuccino per mezz'ora in silenzio. Altri clienti davanti le tavole di Rorschach sono fuggiti inorriditi. Marioil barista è stato costretto a licenziare il laureato con bacio accademico alla Bocconi, versandogli due cartoni di PiùGusto come buona uscita. 
Dal kebbabaro dietro casa l'aiuto falafel era un fisico nucleare. Ahmed, il proprietario, un giorno gli disse “cuoci la piadina a 200”, senza specificare “gradi centigradi”. Il fisico optò per un’altra unità di misura e finì per sublimare l’intero locale.

lunedì 29 dicembre 2014

Ma vaffan****!


Aaaaah! L'ittagliano! Che lingua sublime! L'unica lingua che ha più parolacce che poesie scritte ed anzi, sono geniali, innovatrici, neologiche e poetiche le combo di bestemmie e blasfemie varie: non siamo mica terra di poeti per caso. Non si può sottovalutare la potenza di un insulto: libera, solleva, svuota, fa sentire pieni ed orgogliosi. Volete mettere un sonoro vaff***** nel tizio che taglia la strada in mezzo al traffico? Noi italiani il vaffa lo abbiamo nel sangue: sono nostri tipici intercalari, i nostri incisi, le nostre chiose. I vaffa li abbiamo nel sangue, perché sono i nostri anticorpi e ci difendono da un mondo pieno di minacce altrimenti insormontabili: sono il nostro antidoto al destino avverso, da quello banale della martellata sul pollice fino a quello più difficile del grande sistema che per vivere ci costringe a sopravvivere. Sono la nostra soluzione ai problemi, conclusione pirotecnica di ogni discussione senza via d’uscita, santo patrono di tutte le cause perse. Lunga vita al vaffanculo!

domenica 28 dicembre 2014

Ammmen



1. Io sono il Signore Dio tuo ma chiamami pure Yahweh, Allah, Brahma, Buddha o me stesso: fai come ti pare.

2. Non nominare il nome di Dio invano ma lo spigolo del comodinoe il lunedì della settimana non li ho messi io.

3. Ricordati di santificare le feste ma, se devi andare in chiesa solo a Natale per scrollarti il peso del tuo nonsenso cristiano e/o per mostrati davanti la platea dei tuoi compaesani impellicciati, è meglio se resti a casa a scolarti la bottiglia di Chivas Regal.

4. Onora il padre e la madre ma anche il tizio che ti raccomanda ai concorsi pubblici: senza genitori e sponsor non saresti mai andato da nessuna parte.

5. Non uccidere......no aspetta! Medita vendetta in mente contro il tuo capo e fulmina con lo sguardo i tuoi colleghi.

6. Non commettere atti impuri però sai che noia! Ma sì, va! Dalle due botte ogni tanto!

7. Non rubare o meglio "non arrubbare" a chi sta messo peggio di te. Ruba invece le occasioni che il tempo ti propone anche implicitamente. Ruba i momenti felici e tienili sotto chiave. Ruba le emozioni di chi sai che ti vuole bene. Ruba un sorriso e rubane tanti.

8. Non dire falsa testimonianza oppure sparala enorme e, quando dovrai, nega e nega sempre.

9. Non desiderare la donna d’altri però la donna e l'uomo che oggi rinneghi domani lo/la rimpiangi.

10. Non desiderare la roba d’altri: scade!

sabato 27 dicembre 2014

Noir


Lecce: un uomo dalla stanca barba grigia, con indosso un basco nero, una giacca di velluto blu scuro, un viso alla De Gregori e tanta esperienza nello sguardo, fruga tra i cartoni ammassati al cassonetto e ci trova vecchi libri usati: lo sorprendo appena apre quello scrigno, mentre se lo gusta fermo dritto sul marciapiede con una bell' aria soddisfatta, mentre la vita di città non rallenta, gioioso come avesse scoperchiato per primo un sarcofago egizio. Sulla facciata di un enorme palazzo degli anni '70 un'enorme foto dei due Marò per riportarli a casa: vecchio e nuovo che si compenetrano dentro un patriottismo sfrenato ma soltanto apparente. Un palloncino bianco sul quale è disegnata una faccia sorridente giace trafitto sull' asfalto, eppure ancora mi sorride tra gli pneumatici senz' anima che lo sbalzano di qua e di là: la fantasia non sfiorisce sotto i dardi ostili della modernità. L' autista del bus ha apprezzato il mio saluto formale, interpretandolo come un inaspettato gesto di rara civiltà. C'è gentilezza anche nelle dure città, nelle nature morte metropolitane. Mi avvio verso il mio binario: sulle scale un vecchio indossa un lungo cappotto nero, liso e pesante, uno di quelli che abbracciano soltanto persone con lunghe storie da mettere al sicuro. Suona ballate tristi con la sua fisarmonica rossa. Cinquanta cent nel suo cestino: un prezzo così basso per chi come lui regala sguardi rassicuranti e un intenso sorriso sdentato. Nelle stazioni ferroviarie il caffè è una brodagliaccia nera, eppure resa sopportabile dall' aumento dei succhi gastrici che caratterizza tutte le partenze. Nei bagni poi ci si specchia più che a casa, ci si guarda rapidamente ma più e più volte e ad ogni sguardo ci si scopre sempre un pò diversi rispetto a come ci si è alzati la mattina, ora i capelli, ora l'espressione stanca, ora il bavero della camicia. Finalmente in treno. Ho la consuetudine di sedermi ai posti contrari alla direzione di marcia, con il futuro alle spalle e gli occhi ai sogni che si lasciano a casa. Bari: nella terra del sole è sparito il sole al tramonto. L' attenzione si ferma su dei giovani carabinieri con lunghi cappotti neri, le mani incrociate dietro la schiena, due grossi cappelloni che contrastano con i loro visi più che pallidi da troppe sveglie all'alba. L' impressione non è delle migliori: sento la libertà minacciata da una severità spietata che tanto mi ricorda la deportazione nazista. Prendo il secondo caffettaccio al bar, dribblando con il trolley uomini in fila alle slot machine con occhi assenti e mi fa pena rabbiosa la loro arrendevolezza al grande inganno del Sistema. In fondo alla sala tra patatine e caramelle sperlari una bionda cinquantenne sola coccola il suo the al limone, disperdendone l' aroma fin dentro le molecole puzzolenti dell'alito del cassiere, tuffando milioni di volte la bustina nella tazzina con indefinita poesia. Due anziani seduti in disparte, nascosti nell'angolo della toilette: un tavolo, due sedie in plastica diverse, un mazzo di carte: sembrano collocati lì per non urtare la sensibilità dei passanti felici. La vecchiaia soprattutto in città è nera, brutta e solitaria nonostante gli anziani si facciano compagnia. 

venerdì 26 dicembre 2014

Città platonica

Quando è possibile ritenere una città funzionale? Come si misura una città a misura d'uomo?
Nella città platonica la gente esce di casa, per spendere la vita in ricordi da accumulare e non i soldi che guadagna con il proprio lavoro. Una donna può camminare sola di notte, senza rischiare uno stupro, i mezzi pubblici terminano le corse alle due di notte e si trovano supermarket aperti h24 per ogni evenienza. Nella città ideale la burocrazia non frena ogni iniziativa positiva e nonostante la pioggia le persone hanno voglia di restare all'aperto sulle proprie gambe o su una carrozzina perché sa di poterlo fare. La sicurezza non è sintomo di repressione e gli artisti possono esprimere il proprio sentirsi creativi, avvertendolo come una qualità e non una pecca, fregandosene del maledetto "standard" che azzera l'arte, non quella dei pentagrammi, quella quotidiana, ammazzando ogni meravigliosa diversità che ci rende preziosi e rari nelle semplici cose. Una città a misura d'uomo funziona, quando si respira aria della libertà che non sia la caricatura d'un passato sinistroide, quando si ha desiderio di dignità, sognando la luna, senza guardare il dito che la punta. 
Ecco, ora prendete Firenze...

mercoledì 24 dicembre 2014

Vito, l'amore, Anna

Vito e Anna si erano sposati giovanissimi, si erano amati follemente per 4 giorni, al quinto avevano cominciato a litigare e per cinquant’anni non avevano fatto altro. Vito era alto come un albero, magro come uno del biafra, quasi pelato e bruttino assai. Anna era piccola e tonda come un bottiglione di vino, quelli che hanno la rafia tutt’intorno, si faceva bionda con l’acqua ossigenata e più del suo rossetto rosso ‘fuoco di passione’ amava solo lo smalto ‘oro di Amalfi’.  Vito e Anna vivevano in una casa in centro, con il giardino che dava sul parco comunale, le persiane aperte sulla città vecchia e sul campanello del portone c’era scritto ‘Vito e Anna’, senza uno straccio di cognome, che pareva non servire, a quei due lì. Dal lunedì al sabato partivano alle sette e mezza della mattina per fare la spesa. Giacomo, il verduraio, alzava gli occhi al cielo, ché il suo era il primo negozio visitato, e si sentivano le urla già dall’angolo della strada, perché Vito e Anna discutevano su tutto: “hai chiuso il portone, sei sempre il solito scemo, hai preso la borsa per la spesa, rincoglionita che non sei altro” e continuavano così, per comperare due pere, quattro mele, mezzo litro di latte e una fettina di carne. Anna pareva uscita dal circo Togni: aveva i capelli color crosta di pane acconciati in una croccia riccioluta, con fiocchi rosa che scendevano sulle spalle grasse, il rossetto rosso ‘fuoco di passione’ era distribuito su labbra e incisivi, così quando sorrideva pareva avesse appena mangiato qualcuno e le unghie brillavano di smalto ‘oro di Amalfi’, che tutti a chiedersi cosa avesse Amalfi di così dorato e c’era gente che c’era pure rimasta male, una volta visitata la città, perché se la immaginava come il paese del Re Mida, invece no. Vito sembrava un omino alto e dimesso, con la giacca color topo e i pantaloni di fustagno ma bastava aprisse bocca che subito si capiva che di dimesso aveva solo gli abiti: sembrava bevesse acido muriatico a pranzo e cena, da come rispondeva alla Anna. Che poi, diciamolo, sarebbero stati fatti loro e basta, non fosse che Vito e Anna li sentivi a cento metri di distanza. Anna una mattina si era svegliata col mal di stomaco. Vito le aveva urlato che aveva mangiato come un maiale ma la Dora si era voltata nel letto e gli aveva preso la mano: dovevano essere trent’anni che non succedeva una cosa così. Allora Vito aveva cominciato a stringere quella mano e chiamare, chiamare forte “aiuto, aiuto, aiutatemi”. Anna era morta ancora prima che lui cominciasse ad urlare e li avevano trovati così, mano nella mano, con Vito che piangeva e Anna che luccicava. Dopo dieci giorni Vito se ne era fatta una ragione: quella non era vita per lui. Vito se ne andò solo col crepacuore, seduto su una sedia di paglia. Li avevano sepolti vicini nel piccolo cimitero e avevano fatto un’unica targa con su scritto “Vito e Anna’, tanto dei cognomi di quei due nessuno si ricordava più.

lunedì 22 dicembre 2014

200uno


“Ho fatto la valigia”, dico dal fondo del corridoio e mentre lo dico la chiudo. “Stac-stac, ziip”: il rumore a sigillare l’azione, l’azione a sigillare la decisione, la decisione a sigillare la scelta e tutte le altre scelte che m’hanno portato via di qui. “Va bene…”, risponde, mentre raccolgo da terra alcuni libri, metto in ordine le mie cose, perché non riesco a farlo con i pensieri almeno non ora, mentre esco dalla camera. In cucina preparo il caffè, lascio i piatti nel lavadino: automatismi quotidiani. Gli automatismi prima di partire sono la valvola di salvezza per non galleggiare nella bile che bussa allo stomaco come i secondi che passano nell’orologio alla parete per un’ora, un quarto d’ora, cinque minuti prima di andarsene. Queste piccole faccende salvano dalla pazzia e lasciano il ricordo del ragazzo, che in fondo è diventato uomo e che sa curare anche casa oltre se stesso. In effetti asciugo i bicchieri ed io non ho mai asciugato i bicchieri in vita mia: sto creando nuovi automatismi, perché quelli che ho già non mi bastano. “Lascio sul tavolo le chiavi di casa. A Firenze che le porto a fare”, dico, lasciando sul quel legno il testimone di un’adolescenza che m’ha portato lontano da casa. “Io vado, ciao!” e il rumore di passi, della porta che si apre, della porta che si chiude mi accompagnano in questo rallenty sulle scale. Aspetto gli altri rumori: quelli del portone che stride, della serratura dell’auto che clap s’apre a distanza, le ruote che stridono sul pavimento manovrando e poi la spinta dalla prima alla seconda lungo la salita. Quando sono finiti i soliti rumori che mi parlano di partenza, immagino sempre mia madre che esce dalla cucina ed entra in camera mia, spalanca la finestra,toglie le lenzuola dal letto e le mette nella lavatrice senza dire una parola, senza nemmeno un sospiro, frettolosa con le sue gambine leggere: automatismi. E poi c’è mia sorella Carmela che riprende il discorso lasciato in sospeso appena sono arrivato a casa una settimana fa e ora corre per la casa che “sono già le quattro e devo andare al negozio, che Angelica oggi non c’è e viene il rappresentante” e, mentre lo dice, intanto erompe riordinando l’armadio che ho fatto esplodere dai vestiti cambiati e dalla scrivania vissuta durante le notti passate al computer: automatismi. Sono duecento volte che negli ultimi dieci anni sono tornato a casa dal luogo in cui di volta in volta mi trovassi e per duecento volte ho aperto e chiuso valige, pulito bicchieri, percorso la salita di casa, voltando le spalle all’adolescenza che non ho più ma tornando da chi mi ha permesso tutto questo, a chi è stato in piedi la notte per costruirmi un futuro. Duecento volte ho vissuto questi automatismi e, ora che guardo il calendario, domani saranno duecentouno. Richiudo la valigia e un pensiero sfugge, riesce a trovare lo spiraglio fra le cianfrusaglie in questa camera fiorentina e gli abiti da lavare a casa. Sfugge e si infila dentro le tasche: è lo stesso pensiero che mi attanaglia da sempre, che m’ha portato via e che mi fa tornare, che mi permette di fare e sopportare,di parlarmi e parlare. Per duecento volte questo pensiero l’ho chiamato “casa”. Domani saranno duecentouno.

domenica 21 dicembre 2014

Scatti

Mi piace fotografare l’attimo, il momento che è stato, nell’illusione tutta infantile di poter trattenere l’intrattenibile, come chi imprigiona lucciole sotto un bicchiere. È per questo che fotografo, sullo stesso albero le foglie color rame in autunno; per questo, prima che cominci l’estate, fotografo i papaveri nei campi dove il grano è ancora verde. Fotografo quello che vorrei conservare intatto, preservare dalle offese. Per questo fotografo le pozze d’acqua, la solitudine dell’albero, i campi a trifoglio, gli spazi verdi appena fuori le città, prima che tutto diventi comparto edilizio, zona di sedicente espansione, centro commerciale dell’incommerciabile; prima che piantino palme dove c’erano olivi. Fotografo il bello prima che si trasformi in utile. Per questo fotografo le pietre delle case, gli scuri delle finestre, prima che siano sostituiti da vetrocemento e alluminio anodizzato. Fotografo quello che ho intorno, quello che mi è familiare: molto ho fotografato rimanendo dietro i vetri o aprendo appena la finestra. Fotografo i tetti, le terrazze, i panni stesi; i pomodori su un davanzale di cucina, messi ad asciugare al sole. Mi tengono compagnia le voci che salgono dal mercato. Fotografia da camera, la si potrebbe chiamare. Fotografo le mie radici: Ariano, la Guardia, Piazza Ferrara, Montrino e Cerreto Sannita: i luoghi in cui sento scorrere caldo nelle mie vene il sangue dele mie radici. Fotografo i paesi dell’Appenino, li vado a cercare, violo indiscreto la loro ritrosia: non sono facili allo scatto, conservano un antico pudore fatto di vicoli, cortili, slarghi dove i vecchi si scaldano al sole imitati dai gatti o viceversa. Paesi d’ombre che si allungano in piazze idealtipiche che hanno la chiesa di fronte al municipio, il bar tabacchi, la farmacia. Fuori delle case fotografo peonie piantate in una latta di sardine, ortensie che paiono i fuochi pirotecnici della festa del patrono. Tutto mi riempie l’obiettivo: qui fotografo panni stesi che altrove ignorerei; qui, una serratura, un battente a piede di leone mi interessa più del Koh-i-noor.

sabato 20 dicembre 2014

D10S

Il calcio è un gioco di periferia: s’impara sulle serrande dei garage e le Fiat 127 parcheggiate. S’impara a prendere a calci un pallone con le scarpe buone della domenica e a ricevere colpi alle ginocchia senza sentirli, a rincorrere la sfera di cuoio giù per la discesa o ad arrampicarsi su per un pino, protetti solo dallo sfizio di governare con un piede il lancio del pallone. Scarpette coi tacchetti e superfici in erba arrivano tardi. Il calcio è un gioco da non smettere mai, rientrando a sera lorci e neri e con la voglia pronta di riprendere subito il mattino dopo quando hai dieci anni e il venerdì sera a mezzanotte col borsone pieno di panni sudati che il giorno dopo qualcuno a casa svuoterà. Il ricordo legato al calcio, al mio calcio è estivo, quando era bello da giugno a settembre scendere di nuovo in cortile dopo cena per darsi alle ultime rincorse. Il calcio è un gioco che s’impara anche da soli contro un muro tirando colpi al volo all’infinito. Solo nel calcio la periferia è serbatoio di talenti che resteranno solo ombre sul quel pezzo d’asfalto senza mai finire proiettate su un più illustre manto verde. Per ogni altra professione ci vogliono le Bocconi e le Oxford, ci vogliono gli accrediti forniti dall’appartenenza a un ceto e a un censo. Invece il calcio fa spuntare gloria fra gli accampamenti dei mortificati, al fianco delle discariche di Buenos Aires, sulle Ramblas a Barcellona. Viene dai vicoli fetidi di Napoli e da Quartoggiaro. Su tutti viene dalle tirannie fratricide il più felice guizzo guappo e prestigiatore del calcio di ogni tempo: Maradona Armando Diego, argentino come il tango, che è venuto a far sgranare gli occhi e spellare le mani dagli applausi al vecchio continente. Il suo piede sinistro è stato il più sofisticato strumento di precisione della geometria da Pitagora ad oggi. Venuto dal cielo come il Cristo e come lui con una certa quota di spreco dalla quale non si avrà mai grandezza. Grandezza è anche infischiarsene dei risultati, delle somme tirate, badando di più all’attimo felice del palleggio, allo scatto, al passaggio. Non è stato solo talento, Maradona fu atleta fin troppo avanti coi tempi: Napoli l’ha avuto nei suoi anni Ottanta, nel tempo in cui cambiava i connotati, si staccava dal sud per agguantare un lembo di nord. Napoli ha avuto Maradona non come re ma come anello al dito, quello nuziale. Napoli dopo di lui si è poi lasciata andare, sazia del trionfo, che è stato breve ma tanto lungo che ad oggi ancora ne gode. E’ il proprio il trionfo breve a restare perfetto nella memoria: non le stelle sulla maglietta ma un paio di scudetti e nulla più.

venerdì 19 dicembre 2014

31 anni, libero.


La mia libertà di scrivere finisce, quando scrivo xke invece di perché. La mia libertà di parola finisce, quando rispondo al telefono mentre sono al cinema. La mia libertà di movimento finisce, quando prendo la macchina per fare 300 metri di strada. La mia libertà d’opinione finisce, quando mi esprimo su argomenti complessi per sentito dire oppure quando faccio mio il punto di vista altrui, senza prima sottoporlo al pensiero critico. La mia libertà di culto finisce quando, invece di decidere io, decide dio. Sono libero a 31 anni, quando a farmi gli auguri per primo sono io: chissà magari metto la testa in qualche posto. 

giovedì 18 dicembre 2014

Scriba

Ho creato un personaggio non da poco.
Io, quando scrivo, sembro proprio uno scrittore. Mi piazzo lì, in un bar in centro, ad un tavolino nell'angolo in modo da poter vedere chi entra e per non essere disturbato dal solito pakistano o dal cane della signora con i suoi occhiali da sole anche di sera. Una penna o una matita in mano, il taccuino, incrocio le caviglie sotto la sera e scrivo. Scrivo un po’, poi mi fermo. Osservo il foglio per qualche istante, alzo lo sguardo, lo punto lontano, su niente in particolare. Quando arriva il cameriere a chiedermi cosa desidero, per un attimo faccio un’espressione disturbata, di chi gli si è spezzata la concentrazione, ha perso il filo, gli è sfuggita un’idea. Ordino un the o un tiramisù e via a scrivere di nuovo. Quando torna il cameriere ho preso il via, non stacco la penna dal foglio, dico grazie di corsa e vado per la mia strada. A vedermi da fuori, sono sicuro, sembro vero. Invece è solo la lista della spesa.

mercoledì 17 dicembre 2014

Opignone


Cominciai da giovane ad avere la mia opignone. Al liceo mi chiedevano chi preferissi tra Oasis o Blur ed io rispondevo che sì, Wonderwall era una bella canzone, ma anche Song 2 era molto bella. Poi cominciai con affermazioni più estreme, veri sacrifici. In aereo, finché ti ordinano di spegnere il cellulare o allacciare la cintura è facile ma quando la hostess al momento del pasto ti chiede “Chicken or beef?” lì devi essere deciso: lascia che scelga lei o digiuna per tutto il viaggio. Capii che il mio percorso di crescita individuale era arrivato a suo compimento qualche giorno fa, quando di fronte all’affermazione “La sinistra è corrotta” ho risposto “Eh, ma anche la destra”. Ora lo posso dire con orgoglio, scandendo bene ogni singola parola: io non ho più una sola opignone ma meno di un opinione: preferisco Song 2 dei Blur indubbiamente.

martedì 16 dicembre 2014

Singletudine

Non riesco più a ricordare la voce e il profumo della mia ex fidanzata e nemmeno vorrò sforzarmi: li ho dimenticati inconsciamente e meglio così. Ho cominciato a cercare film più impegnativi di “Scrivimi una canzone” e magari qualcosa d’azione tipo “The gamer” o un bello trash all’italiana che non guasta mai. Riesco ad essere sinceramente felice della mia realizzazione ed offeso dalle bugie che mi racconto. Vedere un paio di gambe e di mani non mi provoca un tracollo ormonale tant’è che non mi innamoro così spesso come prima, avendo smesso di cercare l’anima gemella a tutti i costi. Se prima credevo che fosse primavera anche se piovesse, oggi so che la primavera è quando tiro fuori dall’armadio polo e camice leggere. Lavorare per tenere impegnata la mente ed il cuore non mi basta più, perché non mi sento mai appagato dalla vita che mi ritrovo se ottengo a breve termine quel qualcosa che mi manca. E allora ho capito che la frenesia è nelle mani più che nella mente: i viaggi puoi compierli davvero senza sognare. Ben vengano gli hobby e conoscerne di nuovi. Ho cominciato a cenare da solo e la mia sveglia è alle sette del mattino per far footing. Meglio il brunch alle 12.00 in piedi che la cena a lume di candela alle 21.00. Ho imparato a suonare uno strumento musicale o almeno ci provo e poco importa se stono, la serenata è per il sottoscritto. Aver raggiunto un certo equilibrio e quello che ad oggi mi preoccupa di più è il rischio di perderlo cadendo nella depressione più cupa dell’obbligo del messaggino ad ogni ora del giorno. Cercare ad oggi qualcuna prima di raggiungere lo “stato di grazia” potrebbe portare a conseguenze anche serie: come al solito mi sembrerà di trovare la donna della mia vita e come al solito non sarà così e la delusione prenderà corpo portandosi avanti la mia stessa ombra. Ho alzato il sedere e mi sono messo d’impegno per me stesso. Per ora ben venga la singletudine, che si badi bene non è nè disperazione nè essere tanto racchio da non trovare alcuna donzella che mi fili ma un’attitudine a ben intendere cosa sia giusto per se stessi e come averlo nelle giuste proporzioni.

lunedì 15 dicembre 2014

Dalla cupola al Cupolone


E poi apri la finestra che affaccia sur Cupolone, accendi la tv su ReteSole Lazio e scopri che a Roma c’è la mafia! Pare ieri che er Freddo e il Libanese rapinavano ed estorcevano in lungo e in largo, che facevano qualche servizietto sotto banco per lo Stato ed oggi invece ti ritrovi sulla Tiburtina “la mafia.” Baciamo le mani, sia chiaro, che magari s'offende qualcuno che ha il marcio DOP: questa è la mafia de noantri, una mafia all’amatriciana fatta di politici, affaristi, truffatori, picchiatori, strozzini mica di bombaroli, assassini! Eh! Questa è una mafia che fa simpatia, che pare essere uno sceneggiato al cinema: state tranquilli che ora viene fuori Verdone e ce fa ride tutti quanti! Al massimo te scrocchiano l'ossa mica ti sciolgono nell'acido: che sarà mai questa mafietta capitolina! E che nessuno lo avrebbe mai sospettato, si sapeva ma chi ci pensava mai. Ne parlavo giusto ieri sera col mio strozzino di fiducia mentre mi spezzava la seconda falange: “Non ce se crede che è diventata sta città… mò pure la mafia! Quella è concorrenza tosta!”. Lo dicevano pure al bar vicino al comune, dove Enrichetto dell’ufficio lavori pubblici pagava da bere per la sua nuova Maserati con interni in pelle umana: “Una cosa incredibile! Adesso non si sa più a chi chiedere la stecca!”. “Ah 'Nrichè! Facessero come je pare, io la coppola nun me la metto!” chiosava Er Cipolla, ex pugile, buttafuori, esattore e spacciatore dall'alito carnivoro, stirandosi la tuta acetata. “Vabbé, però se dovemo anna’ in Sicilia a me mica me dispiace” cianciava cor chewingum Jessicah, la sua ragazza, mentre si rimirava le unghie finte lunghe seduta sullo sgabello che pareva Margot di Lupin. Anche il barista scuoteva la testa, mentre con una mano staccava il collegamento delle slot col Ministero delle Finanze e con l’altra dava la mazzetta al vigile urbano per non far fare le multe ai clienti che si fermano in doppia fila. “Dove anderemo a finire?” si chiede la sora Nella, 81 anni, buttata fuori dalla casa popolare da due energumeni che avevano deciso di assegnarla ad altri bypassando la burocrazia delle richieste e delle graduatorie, mentre arranca in stazione circondata da zingarelli di una decina d’anni che la scuola non l’hanno mai vista.
Scriveva Calvino: “Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure”, e Roma non è diversa, tra i sogni di potere dei prepotenti e la paura che governa gli altri.

domenica 14 dicembre 2014

Signor Forse

ll signor Forse arrivava in piazza portando la bicicletta a mano, nonostante avesse  le mollette nel fondo dei calzoni, per non farli sporcare. Arrivato davanti al bar metteva la bicicletta contro il muro, la chiudeva con una catena grossa un pugno, neanche avesse da legare un leone, poi entrava dentro, togliendosi cerimoniosamente il berretto ma dimenticandosi le mollette, cosicchè pareva un signore a tre quarti. “Forse prendo un caffè - diceva – o forse un amaro.” Ci pensava un po’, mentre il barista, che lo conosceva da sempre, gli diceva “faccia con comodo” e andava a servire gli altri. Tornava e preparava un caffé, che da almeno 45 anni il signor Forse prendeva quello e glielo serviva, togliendolo dal dubbio e facendogli venire un sorriso grosso come una casa. Poi il signor Forse si sedeva al tavolino vicino alla vetrina in modo da vedere passare la gente e aspettava i compagni del pomeriggio. Entravano alla spicciolata: Mario di Santo Spirito, Renzo lo zoppo, Marco dell’osteria, Don Giffi il prete, Domenico di Pitti. Ordinavano tutti in coro “il solito“, poi si sedevano vicino al signor Forse, per perdere quelle ore fra il pranzo e la cena, tempo messo lì apposta per fare quattro chiacchiere e decidere della vita degli altri. I discorsi partivano sempre dal tempo. “Forse piove – diceva il signor Forse – forse viene fuori il sole, forse arriva la primavera. Forse.” Poi si passava alla politica, a seguire i problemi del paese, per finire sempre nelle disgrazie altrui. A dar contro alle dicerie che vogliono le donne pettegole, bastava andare al bar dopo pranzo e restarci fino all’ora della cena: in quel tavolo passavano le storie di tutti i paesani, dai cornuti agli ammalati, a quelli con un piede nella tomba, ai pochi che avevano avuto fortuna. Ecco, forse non c’era malizia in quelle dicerie, piuttosto una vena di fatalismo, che la vita se ti prende in un modo c’è poco da farci: e in quelle cose lì il signor Forse dava il meglio. Partiva con un “forse il sarto chiude, forse” e da lì scattavano le domande “ma come? Ma se è cinquant’anni che fa quel mestiere!” e a nessuno veniva in mente che dopo cinquant’anni a far completi e prendere misure e cucire punti piccoli come pulci a uno potesse venire in mente di smettere e accantonare aghi fili e bottoni e riposarsi. Il signor Forse allora continuava “forse va via, un viaggio lungo, forse”. Era quel “forse” che metteva in ogni angolo di discorso, che gli aveva fatto dare il soprannome, ed in quei “forse” c’erano tanti sottintesi che la gente stava lì ad aspettare: di sicuro c’era altro da sapere. “Forse ha una donna - diceva allora piano – forse”. Una donna! Il sarto!” esclamò Domenico. “Ma no! E chi?” si interessava Don Giffi. “Forse una già maritata. Forse“. Era un bisbiglio quell’ipotesi, una cosa così grossa che il “forse” prima e dopo veniva subito cancellato e si aggiungevano invece nomi e cognomi di signore troppo arzille e mariti con la faccia da cornuto. Il signor Forse teneva banco fino alle sei di pomeriggio, poi prendeva il cappello, si alzava piano, e salutava “forse ci si vede domani, se non ho altri impegni. Forse”. Cosa che avrebbe fatto cascare il cielo, perchè da 45 anni il signor Forse non perdeva una battuta e i giri li faceva al mattino tanto era solo lui e non aveva chi lo aspettava a casa. Toglieva la catena alla bicicletta e le donne dal rumore capivano che era tempo di metter su l’acqua per la pasta della cena. Prendeva il manubrio e camminava per la piazza ormai vuota. Si fermava in fondo all’imbocco del corso, si voltava indietro, alzava la mano e con un eco lontano salutava ancora gli amici che uscivano dal bar “forse ci si vede domani, forse”. Poi saliva sulla bicicletta e andava via, pedalando piano in fondo al vicolo.

sabato 13 dicembre 2014

Crisi


La crisi. Spauracchio dell'economia moderna, terrore delle masse sociali: è proprio vero, è un’opportunità, come recita il Sole 24Ore di ieri. Avere finalmente la possibilità di svincolarsi da tutta quella serie di regole e canoni dell’agire civile, morale e sociale che in barba al libero arbitrio faceva da gabbia comportamentale. Parcheggiate a capocchia di fungia?! E' colpa della crisi. Pupparsi i posacenere al pub?! Eh, la crisi. Fingersi malati e in mona la visita fiscale?! Aoh, questa è crisi. Passare davanti il vecchio col cappello in coda alle poste?! Ho più crisi di lui. Mettere la plastica nell’umido?! Che vuoi, è la crisi. Mettere le corna alla moglie?! La crisi non mi molla. Scrivete idiozie il tredici dicembre?! C’è crisi.

venerdì 12 dicembre 2014

Quo vadis Porcio Catone?


Si dice che studiare la storia serva a non ripetere gli errori di chi è venuto prima di noi.Se fosse così, appena i libri di storia sono iniziati a circolare, ci sarebbe stato un evidente calo degli errori commessi. Ogni generazione avrebbe sistemato qualcosa che era andato storto in precedenza: un meraviglioso meccanismo di debugging della vicenda umana. E invece... Solo nell'ultimo secolo sono stati commessi degli errori da brivido, reati catastrofici, strafalcioni umani e cadute di stile planetario che ancora fatichiamo a concepire. Allora di certo errori se ne fanno sempre e comunque di nuovi oppure la storia non l’ha mai studiata sul serio nessuno.

giovedì 11 dicembre 2014

Sannio


Duro  oltre  la  pietra  viva, chiuso nell’occhio arcigno del ciclone, schiacciato  per  terra dai venti furiosi di  rabbia, teso  e  granitico, recluso nella  tana  del  freddo. Rimasto  nudo da  solo  nel  caos della  vita, avvinto dai  sentimenti, alla  deriva del  tempo, nascosto nelle  macerie di  quel  che  resta della storia. Questo è il Sannio.

mercoledì 10 dicembre 2014

Letterina di Natale

Caro Babbo Natale,
una volta l'anno, per la trentunesima volta ti scrivo.
Parliamoci chiaro io e te: scrivere a uno che non esiste, fa uno strano effetto. Ora, io prego pure la sera prima di dormire ma i regali da bambino li ho ricevuto più da te, Babbo Natale, che dal suo collega nell'alto dei cieli. Non che ci sia qualcosa di male a non esistere: Dio ci ha tirato su una religione con miliardi di fedeli. Ora però veniamo alle cose importanti: i doni impacchettati. Alla mia età non posso certo chiederti il classico trenino, casomai direttamente le Ferrovie dello Stato e, se non l’azienda tutta intera, almeno almeno una poltrona nel consiglio d’amministrazione. Oppure, invece di qualche libro, una casa editrice: con Marina pare abbia funzionato ma lei la letterina la mandava al babbo Silvio e non era nemmeno Natale. Dovrei chiedere cose da adulto, lo so: una donna decente, una casa accogliente, una bella macchina. Aspetta già sto chiedendo troppo e devo ricalibrare il tiro: un capo meno rompic***, la rata del mutuo scontata o l’esenzione dall’IMU, il prezzo della benzina bloccato per almeno un anno. Ma sei Babbo Natale, mica Renzi.
Potrei chiedere la pace nel mondo, ma so già che quella te la chiede Miss Italia, quindi viste i miei peli sul petto non se ne fa nulla oppure chiedere un'Italia più capace, in cui i problemi si affrontano e risolvono, dove i politici fanno il loro dovere e i cittadini altrettanto ma so che mi spediresti un biglietto per un volo internazionale verso il Gabon di sola andata. Potrei chiedere un gatto, ma in realtà bisognerebbe chiedere a lui se vuole un umano. Potrei chiederti un tablet e maggiori diritti per i lavoratori cinesi, per vedere come te la cavi con i paradossi oppure chiedere una rivoluzione, solo per lo sfizio di vedere quanto lontano corrono a nascondersi quelli che la reclamano ogni giorno a gran voce. Potrei chiederti dei bei calzini, che – hai voglia a dire – sono sempre stati e sempre saranno il miglior regalo possibile di mia cugina oppure chiedere che scenda su di noi lo spirito critico ma sarebbe un miracolo, e allora punto e a capo.
No, davvero, è un bel problema. Non so cosa chiederti ma non per non farti spendere poi così tanto che sarà crisi anche in Lapponia con tutta stà solfa dei ghiacciai che si frantumano e ci sfrantumano.
Anzi, aspetta, forse una cosa c’è. Vorrei che mi regalassi – non so se è possibile – un anti-universo. Ti spiego bene altrimenti sai che casino: vorrei che prendessi tutto quello che non esiste e lo facessi esistere e quello che adesso esiste, invece, smettessi di farlo esistere. Una sorta d’inversione d’esistenza, un capovolgimento e questa sì sarebbe una rivoluzione. Te lo chiedo perché, a vedere il mondo com’è, non sono convinto che aver fatto esistere quello che esiste sia stata la scelta migliore. Magari un mondo al contrario funziona meglio. Non si può dire per certo, ma vale la pena provare. Via tutto l’esistente et voilà tutto l’inesistente. Lo so, io svanirei con tutto il resto mentre tu, caro Babbo Natale, sbucheresti finalmente fuori dal nulla e con te un mucchio di cose che nemmeno siamo mai riusciti a immaginare, stupidi esistenti che non siamo altro. Io, se fossi in te, Babbo Natale, non esiterei  ed esisterei. Già la sento la Madonna che mi bestemmia!

martedì 9 dicembre 2014

Sempre la stessa storia

E' sempre la stessa storia. Anche la domenica mattina. Apro le tende del mio ufficio. La luce occupa gli spazi con il riflesso del biondo mare stagliato dal mostro dell'Ilva. Giro nervosamente il mio sciapo caffè e uso la paletta come un siculo scacciapensieri. Ah, sì, i pensieri. I figli lontani, il mutuo da pagare, le tubature da cambiare e poi le ginocchia, maledette ginocchia e poi quante carte: "ai tempi miei si risolveva tutto con una stretta di mano". Aspetto la gente che chiede consiglio e pure se un ladro mi confessa una rapina, lo guardo negli occhi stanco e senza meraviglia. L'altra sera Donna Caterina è entrata in questa stanza, ha chiuso la porta e ancora non sicura del silenzio nell'orecchio mi ha confessato "Comandà, il figlio di Libera è di don Mattia, sì, avete capito bene, il prete, sì, quello nuovo". Sapendo che questa è incline al chiacchiericcio da bottega, l'ho congedata - "Andate andate pure, Caterina, sono solo dicerie di vicinato" - con solo con sei Ave Maria, nemmeno fossi io il prete in dolce attesa. In tanti anni di onorato servizio ho capito che, per vivere meglio, bisogna confessare i propri peccati al Signore là in cielo nella speranza che t'ascolti o a noi poveri cristi su questa terra sconsacrata nell'attesa di non essere noi per primi giudicati. Un caro vecchio amico brigadiere andava dicendo ai galeotti, che scortava davanti ai giudici e che imploravano pietà: "Le preghiere non servono a niente, se tra due ore stai ancora rubando". Questa mattina aspetto Nicola, un buon uomo di Punta Rondinella, che ha un figlio che s'è giocato pure l'anima nelle slot machines. Se avesse dato ascolto al padre, sarebbe un gran signore, sistemato e sposato. Ieri ha accoltellato un uomo per una sigaretta. "Marescià, mi scusi sà!", bussa impettito il giovane carabiniere ciociaro al montante della porta, "e che c'è sarebbe un vecchio che m'è chiede se è reato de avè dù rapporti al mese con nà prostituta".  Scuoto la testa e lancio un fulmine al ragazzo ma sorrido sotto il mio baffo corvino. E per fortuna che oggi è domenica. E non potete immaginare che sofferenza è stata cercare di distogliere Rosa dell'Hotel Astor dallo sposarsi con un carcerato. Il giorno prima la mamma, santa donna che vent'anni fa per me era il primo amore, col cuore a pezzi mi ha preparato la solfa per la figlia l'indomani: "Rosa cara, mi sembri tua madre e non fare il suo errore che da ragazza scelse Nicola "ù fesse" invece di un giovane uomo in divisa. Ricorda, cara figlia: Ha lassàte Criste, pè scè a lle cozze". Ogni volta che penso al mio passato, a questa mia vita, riguardo il mare, che è sempre uguale e sempre nuovo: si porta via lontano gli uomini e il tempo e torna sempre solo a riva, per continuare il suo moto perpetuo dal tempo dei Greci a questo mio tempo. E io che sono barca in mezzo a questo mare di peccatori, altrettanto io peccatore, non posso far altro che essere mare e onda, cristo e bestemmia, giudice e ladro, in attesa di essere portato via lontano da questo mare, che tornerà solo a riva. 

lunedì 8 dicembre 2014

Comunque solo


Le  mani si  accavallano nervose  da  sole, cercano di far schioccare  le  dita e  con gli  occhi  rivolti al pavimento,  con  molta  fatica  trascino  il  mio cuore  fuori  dalla  porta: esco dal tuo gioco a chi più dolore procura. Fanno  fatica  gli  occhi  a  piangere, perchè lacrime e strazio sono finiti da mesi ormai, deluso  e scartato  non  mi  volto  indietro, mi rimane  ancora  una  piccola  scheggia  di dignità. Ho  provato  con  tutta  la  fanciullezza  che  vivo  dentro  a  farti  sorridere  di  più,  ti  ho cercata con  tutta  la  mia  insistenza  ma  hai  trovato  l’ingiusto  momento  per  dirmi: "me  ne  vado, avrei dovuto farlo prima". Scopro  che  non  sempre  essere  se  stessi  aiuta,  ripongo  le  mie allegrie in questa scatola di ricordi e la chiudo: quel  che è  rimasto  utile  di  me  lo ripongo in  una  nuova valigia con il  giusto  peso utile  ed  un  esame  passato  in  più  nella  vita  come  se  non  bastassero quelli  già  vissuti. Dovrò pur arrendermi ed accettare le parole di chi mi è intorno: "anche il male serve". Alzo  la testa  e  vado  incontro  a  tutte  le  tempeste  che  si  presenteranno, che io stesso ho scatenato pur di tenerti ancora un giorno al mio fianco: questa volta solo, come del resto solo anche insieme sempre sono stato.

domenica 7 dicembre 2014

Cchiu è niente

Oggi à cumpagna mia si  chiamma “sulitudine”.
La porto appriesso come  fosse ‘na  cosa  rara, truvata all’angolo è chesta esistenza mia. 
E  mò  m’ à  porto chiusa a'dinto, comm’ a   nà  cassaforte, e riesco a tenerla luntano  pure a  chi spisso  me stende  ‘na  mano.
L'attore à  fora  è  bravo  e  alla  scena  è  abituato e ò tiempo ormai  è ‘na morsa  che  non  allenta cchiu’ chisto spazio  vuoto: gl'è   l’unico  riparo là addò stà povera  anima.  
Sarà  che  l’aria attuorno non riesce  a  me  scetà, sarà  che  stai  luntano  e  sulo m’hai  lasciato e sulo se ce penso s’appicciano l’uocchie e guardano  per  terra. 
E  sulo se parlo ccù te non  me  importa cchiù è  niente.


sabato 6 dicembre 2014

La risposta è dentro di te e pperò è sbajiata


Per ritrovarsi, bisogna perdersi.
L'ho letto proprio su fèisbùk che geolocalizza la posizione delle chat, calcola amicizie in comune con gente che avrei premeditato e riuscito a perdere, chiede indicazioni sul mio stato d'animo, dove e con chi sono: quella volta che vorrei perdermi, non mi è possibile riuscirci. Nonostante questo, l’homo insapiens social non ha ancora smesso di farsi una delle sue domande più primordiali: “Dove stiamo andando?”. Perché anche se la tecnologia ci aiuta, se i satelliti e i segnali radio ci permettono di calcolare con precisione ogni minimo spostamento che facciamo, le vere direzioni che ancora ci mancano sono quelle morali. Spero un giorno che sarà partorita un'invenzione, un navigatore che permetta di capire non di capire da dove siamo venuti, perchè le direzioni prese l'abbiamo scelte col primo passo, ma dove stiamo veramente andando, che ci dia indicazioni come “Al prossimo incrocio saluta tu per primo”, “Fai inversione e rifletti su come ti sei comportato”, “Tra due altre persone smetti di fare lo stronzo”. Magari aiuterebbe a capire che il senso della vita non è altro che un senso unico tipo “Smetti di fare gli stessi errori e vai sempre dritto”. E se qualcosa dovesse andare ancora storto, nessun problema: il navigatore sarebbe lì non a cazziare ma a dire con voce profonda e serena “hai fatto una cazzata, ormai siamo abituati ma adesso ti ricalcolo il percorso”.

venerdì 5 dicembre 2014

L'ultimo sole

All'ombra dell'ultimo sole 
s'era assopito un pescatore 
e aveva un solco lungo il viso 
come una specie di sorriso


Aveva  un riso  o un  sorriso di  scherno pronto a  passare su  qualsiasi muro d’innanzi  si  ponesse. Ed  aveva  visto  l’alba,  il  sole  e la  rugiada posarsi  sul  manto  della  sua  vita , cosi come  aveva attraversato la  notte  cupa  e  poi  fredda. Aveva  lavato  il  viso  nell’acqua  sporca  delle  pozze senza  ristagno nell’immane  cammino della sua quotidiana esistenza. Non  aveva  mai amato di un amore finito: come  un  tronco  lacero, era  scavato  dal  desiderio  di  poter  diventare  tana di incontri ma  aveva   vissuto  l’amore  pieno e  sofferto.  Aveva  colto  solo il  frutto  acerbo dell’amore, preferendovi allora reti e rotte di marinai, mani callose e barche sgualcite dallo scirocco. Di traverso alle onde  a  lui  erranti si  fermò e  scese, attraccando il misero veliero, denudò della lisa camicia il petto di cicatrici e tatuato di nomi di donne amate: si guardò nello  specchio d'acqua ristagna davanti ai  suoi  occhi  segnati  dal  sale, dall’umidita’  e  dagli  avvezzi della  sua  storia e trovò lui: il  suo  lui sconosciuto che  lo  aspettava con  mano  tesa e  docile, come mai nessuno aveva mai fatto nei suoi riguardi, cercando  di  accompagnarlo  al  suo  futuro,  al  mare  dei  sogni  sparsi su onde  increspate da  attraversare. Si  sentì vero ed  allora  tacque, lasciandosi andare sul fondo del mare.

giovedì 4 dicembre 2014

Il cortile

Ricordo le corse in tondo nel cortile, io e te come due giovani carcerati nell'ora d'aria, a guardare il quadrato di cielo blu oltre le inferriate negli unici sessanta minuti dei pomeriggi tra tabelline e poesie da rimandare a memoria. Ci sono passato l'altro giorno, sai, per quel cortile a ventisei anni di distanza da quei pomeriggi assolati: era una domenica sera di novembre, una di quelle con il campionato fermo ma che pareva ancora sentire la radiolina con Bruno Pizzul e Tonino dal secondo piano che gridava "E zitti un pò che non ho capito se ho fatto 13 al totocalcio!". Poi ho rivisto te due decenni dopo e non t'ho salutata. Ti ho sentita parlare e la tua voce era nuova e così lontana dalle tue canzonette di Cristina d'Avena che non finivi mai di ripetere, come un mantra della felicità. Sei/siamo passati da giocare con due legnetti e una bicicletta senza rotelle per due ad appicciarsi allo smartphone: ecco, proprio in una domenica così, con lo sguardo basso illuminato da quel display ho capito che eri il mio grande amore da bambino. Avrei voluto dirtelo, bussare alla finestra e, sperando che mi riconoscessi con la barba in viso e le rughe, lasciarmi confessare e tu con la testa tra le mani, come quando mi vedevi costruire la pista per le biglie, a sentire che non t'avrei mai avrei voluto lasciare e perdere la madre dei miei futuri figli, la donna con cui invecchiare insieme e per sempre, che avrei accompagnato dai sei ai cento anni. Poi t'ho vista accogliere tra le mani una bambinetta e il mio folle intento s'è strozzato in gola e negl'occhi, facendo un passo indietro da quel vetro. Ho sorriso mentre andavo via: sapessi quant'è simile tua figlia alla bambina che incontrai ventisei anni fa...E' proprio vero, è proprio così: gli anni fanno dimenticare gli anni belli ma non le persone che l'hanno fatti belli e il bello genera altrettanto bello. E per un solo istante t'ho risentita chiamare il mio nome giù per le scale del cortile della nostra infanzia.

mercoledì 3 dicembre 2014

Hirpinia


Soave la regina della terra nera tra la Daunia e il Matese. Fata e megera, inebria nel suo raggio i genuflessi aspiranti: s’apre al sorriso del sole e nel medesimo istante balza felina a difendere il suo trono per rinchiudersi nella notte tra i vellutati petali. Schiva ed audace, dolce ed amara e di bianco candore ha un anima rosa quando veste di felicità. Cela lo sguardo all’armoniosa vita che gira nell'altrettanto giro delle stagioni: vive d'una pallida estate di gioia infinita, si ammanta di stelle dei cieli tersi e gelati d'inverno, t'accarezza d'ogni carezza nella breve gialla primavera, ti inebria i pensieri di vino arancio autunno.

martedì 2 dicembre 2014

Confesso


Padre, mi perdoni perchè ho molto peccato.
Ho peccato tutti i peccati di tutte le religioni: ho ucciso, spergiurato il nome di Dio, mentito, tradito, non ho rispettato le tue feste, famiglia e le donne degl'altri.
Padre, mi perdoni perchè più di ogni peccato oggi mi allontano da Dio. E pensare, credere che l’ho cercato, pregato, invocato tenacemente ma non ho avuto ascolto: non posso fare altrimenti, perchè pur porgendo l'altra guancia, rimettendo i debiti e ricevendo in pieno viso tutte le pietre scagliate da altrettanti peccatori, io non l’ho meritato. Padre, ho attraversato sensazioni che mai ho creduto di provare, dormendo accanto alla disperazione senza far rumore: negli incubi ero sveglio, mi sentivo forte, credendo che l'Altissimo mi fosse accanto ma Dio non fa patti ancor di più con farisei come me. Nonostante abbia affidato tutto nelle sue mani, Padre, ho accettato a malincuore la sua volontà: adesso tutto è più chiaro in me, adesso soltanto ho capito come sempre quando ormai è tardi. Quante volte l’ho tradito e le infinite volte che mi son voltato dall’altra parte pur avendo il tempo nelle mani della forza cristiana d'essere solidale con il prossimo. Forse non l’ho mai amato, forse l’ho saputo solo dipingere a parole ma adesso è tutto chiaro: gli son stato sempre lontano, mentre lui mi stava accanto.

lunedì 1 dicembre 2014

La casa del vento


L’abitudine del proprio posto, della finestra che guarda il mare, del tempo, delle stagioni che scorrono, del ritmo del cuore, del suono che danza fuori e dentro di te. L’abitudine del filo della vita, provarla a capire nella casa che canzona Zephiro. L’abitudine a tapparsi a non voler sentire, ad andare avanti tanto sai che tutto dovrebbe avere un destino. L’abitudine ai numeri, a fare i passi del solito tragitto, a tornare a casa, ad aspettare l’ora del vento. L’abitudine al gallo che canta nelle campagne, al profumo del caffè, all’acqua fresca e sferzante sul viso la mattina quando il sogno gira ancora nella testa, alla coperta che t’avvolge, alla notte incantata dentro agli occhi, alla luna alle stelle. L’abitudine a queste carte che sembrano non finire mai, alle strette di mano, agli abbracci. L’abitudine delle mani in tasca, dove sai che c’e’ sempre un pò di sole, al sorriso degli amici, di pregare e pagare, di chiedersi cosa è giusto e cosa no.

domenica 30 novembre 2014

Labora

Ci sono luoghi in cui le tradizioni sono tramandate e custodite gelosamente. Questa donna mi ha colpito per la sua meticolosità con cui sceglieva i legumi: li selezionava uno ad uno, come maneggiasse qualcosa di raro e di prezioso. Non ci rendiamo conto che tanta tecnologia ha preso il posto di mestieri e costumi ormai dimenticati. Chiunque passasse dinanzi a questa donna, credo non potesse rimanere affascinato da quel suo affanno, dalla ricerca e curiosità tra l'assaggiare la qualità e le sensazioni che ne poteva ricavare dopo che su un semplice fagiolo era stato svolto quel lavoro certosino. Meditiamo, meditiamo nel cercare e ricercare le cose più semplici come un fagiolo, più vere come un'anziana laboriosa. 

sabato 29 novembre 2014

Benvenuti al CentroNord

Nove anni vissuti in quel di Firenze, lontano dal mio amato sud e già sento il dovere e l’impegno e di permettermi la licenza di dar consigli a chi decide di prender armi, bagagli e burattini e percorrere le strade al nord di Roma. Per tutti gli altri emigranti questa è la mia pacca sulla spalla: coraggio!

La netta differenza tra sud, il centronord e – nel mio personalissimo caso – Firenze è una: il caffè. Il caffè dalle mie parti è offerto, stop! Non c’è bisogno di chiedere se lo si gradisca o meno mentre, almeno qui, si pone sempre la domanda “ti posso offrire un caffè?” e, se la risposta è negativa, pare scampato il pericolo d’un tracollo economico. Ecco! Purtroppo l’intenzione di sembrare familiari l’un l’altro, vicini, wuè wuè paisà, svanisce completamente con questi piccoli gesti.


L’estate: il mare non c’è e non è solo un mero fattore geografico. In Toscana si va al mare a Forte dei Marmi e già di per sé suona di vacanze che nemmeno nei film di Alberto Sordi ma il concetto andare a mare non equivale al nostro: non si sdraiano a quattro di bastoni e non leggono un buon libro rosolandosi e non facendo una beata mazza. In spiaggia si gioca a racchettoni sul bagnasciuga ed hanno pure le regole (!!!). Poi si fa l’aperitivo e si balla, ci si muove, ci si diverte. Per me invece è uno stress, uno stress infinito questo “mare”.

L’ inverno: il freddo è inarrivabile e a Firenze poi non è un freddo normale: anche per noi Irpini, che viviamo sotto 30 cm di neve da ottobre a marzo, non è un freddo a cui ci si abitua. L’umidità t’entra fin dentro i neuroni e allora capisci perché qui si parla con l’hacca aspirata! Il vostro cappottino carino andrà nell’armadio della roba che non usate, i jeans saranno troppo caldi per l’estate e troppo freddi per l’inverno, andrete in giro imbottiti come l’omino della Michelin tremando e sentirete gli autoctoni dire “Ohi, ohi! Stamani l’è freddo un bruscolino!” e dovrete trattenervi dalla voglia di annientarli con un colpo di kalashnikov.

La cena fuori: le genti del centronord non offrono e non solo. Sarebbe già un qualcosa pagare alla romana ma, evidentemente, si chiama alla romana perché vale fino a Roma. Più su della capitale controllano sul menù quello che hanno preso e ognuno paga per quello che ha mangiato, contando finanche i 0,50 cent del contorno. Quante volte ho resistito alla voglia di alzarmi, buttargli i soldi della cena in faccia e dire “Non chiamare mai più. Pezzente. Nella tasca della MasterCard tu hai la tessera punti della Coop.” Ho finto allora indifferenza, ho sorriso quando alla cassa ci si arrivava con i pezzi da 5,00 euro e le monetine di rame contante fino all’ultimo.

I compleanni: al sud mia mamma preparava la torta, zia faceva due tartine comprava chili di patatine e pop corn, poi loro uscivano e saccheggiavo la cantina in cui c’era dell’ottimo vino fatto in casa. Al centronord la gente ti invita al compleanno e tu ti devi pagare la cena: cioè loro decidono dove festeggiare, tu vai e ti paghi la cena e loro offrono la torta! Quindi io vengo al tuo compleanno, mi pago la cena e ti faccio il regalo: assolutamente inconcepibile!

Il pranzo: Vi invitano a pranzo? Non pensate che abbiate tutta la mattina libera: qui si mangia ad orari da ospedale. Alle 12.30 si fa pranzo, 20.00 si fa cena e, mi raccomando, non si pranza e cena in casa ma solo al ristorante. Niente pranzi della domenica alle 14.30 tutti a casa di tizio….no, non ci pensate! Ci si vede il venerdì sera alle 18.30 per l’aperitivo.

Passare a casa: sei sotto casa di un tuo amico e vuoi bussare? Noooooo, pazzo: non farlo! Non si può! A Firenze bisogna telefonare e chiedere se si è a casa e se non si è di disturbo. Per noi è inammissibile: si passa a casa, si bussa, si entra e non fa nulla che la cucina è in disordine e le mamma hanno i capelli coi bigodini in testa: un caffè non si nega a nessuno.

Le bancarelle: a Firenze non si urla, non si tratta sul prezzo e i prezzi sono gli stessi di un negozio. Non vi aspettate i nostri mercati chiassosi, la gente che ti chiede sconti, trattare col pescivendolo e dire “Se non me lo dai a di meno vado da un altro” altrimenti vi guarderanno come dei folli e vi diranno “Ohi dè! Vai pure!”

giovedì 27 novembre 2014

Signor anonimo, le scrivo

[...] sei un pagliaccio! Un premio alla vergogna ti toccherebbe! Sei un falso...Pagliaccio!!! Ingannando chi spende il proprio tempo nel darti credito....una persona con un pò di dignità anziché insabbiare il tutto come hai fatto tu avrebbe chiuso il blog! E scommetto anche che sei uno di quelli che pensa che l'Italia è un paese che non funziona per colpa degli altri... e tu povero "artista" non sei altro che una vittima incompresa di questo squallido sistema!

Manzoni apre i Promessi Sposi, fruendo dell'espediente dell'anonimo, l’immaginario scrittore seicentesco da cui simula di ricavare il racconto di Renzo e Lucia: il nostro Alessandro finge di trascrivere la prima pagina di un manoscritto seicentesco di cui l’anonimo autore anticipa alcuni elementi del racconto, mettendo in mostra la sua abilità stilistica, infarcendo la pagina di riferimenti classici, metafore e concettini, similitudini. L’anonimo con la sua sottomissione utile al solo romanziere e con le sue lungaggini si offre facile bersaglio agli strali ironici del suo ideatore: moralmente di fatto l’anonimo si dimostra servile nella complessa metafora del governo spagnolo come radiosa costellazione e dei governanti tutti come giganti a cento braccia e mille occhi per trafficare nei pubblici emolumenti, ironica vox media tra le più felici dell’introduzione, irrazionale nel ricorso al diavolo come unica causa dei suoi mali presenti. 


Il 26 novembre ho ricevuto una sventagliata di complimenti da parte di un non meglio identificato lettore del blog, un tale "anonimo" che preferisce nascondere il suo iracondo disappunto dietro il dito con il quale mi ha generosamente scritto, per poi lanciarsi in una parafrasi del male italicus. Sarà... 


Gentile signor anonimo,
non sono nè arrabbiato nè turbato per i commenti postati. 
Ho aperto recentemente questo mio personalissimo blog, come sequel ad altri due precedenti blog, dando loro il senso di un diario di viaggio piuttosto che mera esposizione della mia sicuramente giudicabile idea di comunicare o di elargire il mio pensiero: le mie sono idee personali e/od artefatte ma pur sempre personali e queste, prima ancora di puntarmi contro il dito, come in questo caso possono essere utilizzate non per difendermi od altrettanto nascondermi dietro un "anonimo" bensì per ribadire il senso logico/tecnologico/letterario di questo mio lavoro. Come vede, signor anonimo, non mi addolora la tanta sua veemenza nè mi affannerò a scovare la sua identità, perchè non mi interessa conoscere il suo volto, fin troppo io preso da ben altre stimolanti mansioni. 
Per me, signor anonimo, parlano i numeri e non farò nè menzione del bacino d'utenza giornaliero di visite al blog nè delle collaborazioni cospicue con altrettanti siti web e d'informazione, premi letterari e ristampe dei miei libri: si figuri, non le conto io e sono certo che altrettanto non interessino a lei. 
I suoi commenti, mi perdoni la guasconeria, passano inosservati ma un post solo per lei, signor anonimo, ho desiderio di dedicarlo non per irriderla, pareggiando il suo livello di galanteria, nè per cantare le mie glorie o i miei turbamenti: ho imparato infatti, signor anonimo, che, quando punto l'indice contro un altro, ci sono altre tre dita che puntano verso me stesso e bado bene prima di continuare ad invocare vergogna, falsità e dignità. Non sarò un fulgido esempio di fede, di onestà e di dedizione letteraria ma al circo non vado ormai da oltre vent'anni e i pagliacci, lo ammetto, mi fanno davvero tristezza: l'arte circense del far ridere lei e il mio pubblico ancora devo temperarla, se mai finora fosse mai venuta fuori. Se avessi mai ferito la sua scrupolosa sensibilità, mi spiace, non è mai stato mai mio concepimento nei confronti degli altri, figurarsi degli amanti famelici della critica che nella sua occasione non è stata costruttiva, anche se di costruire qualcosa su un terreno tanto paludoso nemmeno m'interessa. 
Non passerò all'azione con la solita minaccia di certi blogger sulla diffamazione a mezzo stampa: già minacciare querele è per me sinonimo di altrettanta decadenza morale, spiattellando nelle aule della giustizia questa magra vicenducola da Azzeccagarbugli. Detto tra noi, signor anonimo, ne so io di giurisprudenza quanto lei nell'uso dei puntini sospensivi ed in confidenza la giustizia per certe vicende è sì severa ma blanda. Pagliaccio e falso in sintesi spicciola e rapida m'entra e mi esce da un orecchio all'altro, sarà perchè non sono abituato a ricevere certi attributi dato che, non so per lei signor anonimo, per me è la prima volta e quindi mi lascia totalmente indifferente. 
Voglio pubblicamente scusarmi con lei, signor anonimo, per l'involontario ritardo nel risponderla e desidero assicurarle che continuerò tranquillamente ad esercitare il mio libero democratico diritto di pensare, di scrivere, di editare, di scopiazzare a mio piacimento, di cancellare post, commenti e commentucci, dimostrandole come molti fruitori della rete internet, me compreso le sia chiaro, evidenziano di non sapere degnamente esercitare il proprio ruolo. 
Lei, signor anonimo, ho notato che manifesta molto affetto ed attaccamento verso questo nostro Paese ed altrettanto vivo interesse ad un non civile confronto: poco male, dato che ognuno liberamente dilaga nel suo intercalare fino a scadere o nella noia o nell'indifferenza e scegliere in questo nostro caso tra quest'ultime due ipotesi proprio non saprei. 
Un antico personaggio locale del mio Comune a modo suo cattolico praticante, così pregava: "Signore mio, aiuta i ricchi. I poveri sono abituati a fare i poveri". I suoi commenti non arricchiscono già la mia ricchezza da scrittore e la sua via d'uscita auspicata al mio ciarlare su questo blog esce di scena proprio con la musica inconfondibile dei clown del circo Orfei. 
La ringrazio, signor anonimo, di avermi dedicato ancora, se mai leggerà queste righe a lei dedicate, il suo prezioso tempo che sono certo saprà spendere in altri modi diversi dalla futura lettura di queste mie pagine: una visita in meno è gradita quanto cento di più.
Da povero "artista" mi congedo da lei con un auspicio solo a me rivolto: dipende dalla mia idoneità di non offendere la sua coscienza che contrariamente nemmeno m'interesserebbe. Mi perdoni allora, se non le lascio l'ultima frase ad effetto, perchè cadrebbe tutto il castello di parole per lei, chissà poi a quale titolo, innalzato, signor anonimo.
Se fosse mai stata sua intenzione screditarmi, le darò sin da ora una virtuale pacca sulla spalla: non è riuscito nel suo intento, dato che ci sono altri modi e soprattutto termini per avvalersi di tale facoltà morale ed uno di questi non è certo celarsi dietro tanti commenti senza pena mia e lode sua ed anzi, dopo questo mio post in merito allo spiacevole e già concluso attuale episodio, signor anonimo, ne guadagnerò io in meglio e a lei non resterà che essersi sfinito per nulla.
La lascerò così, nella convinzione di un qualcosa che conosce solo lei e che la rende felice. 

mercoledì 26 novembre 2014

"E due": la cod@ in trasferta


http://www.letturedametropolitana.it/2014/11/unavventura-metropolitana-levento-e.html

Secondo premio letterario del 2014: da Torre del Greco la cod@ del gatto questa volta è in trasferta a Milano. Dopo aver partecipato al contest un'avventura metropolitana, uno dei miei precedenti post, il mio cavallo di battaglia - L'ultimo litigio - è stato selezionato vincente tra molti altri. Non nascondo la soddisfazione e chi il prossimo 29 novembre dovesse mai trovarsi dalle parti di Via Cenisio a Milano è ben invitato anche solo per un saluto. 
E due...

http://www.letturedametropolitana.it/2014/11/lultimo-litigio.html


martedì 25 novembre 2014

La crema del tempo

Avevo otto anni. Il pomeriggio era lungo quanto la luce che entrava dalla finestra e caldo quanto il vento che ne gonfiava le tende. Le mie giornate giravano intorno al tavolo della cucina, come ci giravo io: lui immobile ed inerme a seguire il tempo delle stagioni, io correndo come un disperato, aspettando che venisse l’estate, consumando prima le scarpe coi lacci poi i sandali di cuoio. Mi fermavo un attimo, per prendere fiato o per un richiamo di mia madre “Giggì dai e basta! Siediti due minuti! Dai che ti faccio un panettone!”. Povera mamma, santa donna: quanto l’ho fatta penare dietro alle mie corse per casa. Lei si alzava stanca dalla sedia dove leggeva i punti dell’uncinetto come fa un marinaio con le carte nautiche, io invece mi sedevo, impaziente e ammonito da tale dolciaria austerità con le braccia conserte e il muso basso. “A Mirella e Carmela non dici mai niente. Sempre io.”, però intanto la osservavo con gli occhi felini in un mix di felicità e orgoglio. Sbatteva un uovo con lo zucchero, aggiungeva il latte, una scorza di limone, un pugno di farina. Bolliva sul fornello più stretto il pentolino. Il profumo deciso del limone inondava tutto: calore e odore permeavano i mobili azzurri della cucina. Io appoggiavo la testa sul tavolo, guardandola incantato. “Dopo metti la crema?” chiedevo. Una crema giallo zafferano, densa, che s’agitava unita così come la scuotevi dalla pentola. Mia madre allora la lasciava lì ancora fin quando la superfice non s’induriva e allora le tracce del mio indice non potevano non rimanere nascoste. Io mettevo la sedia contro l’anta del mobile basso e in ginocchio guardavo fuori dal bordo il vapore che saliva profumato e irresistibile. “E’ ora?”, “No, ancora è presto, aspetta”. “E’ ora?” – “Nooo”, serena mentre incrociava filo e uncinetto tra l’indice e il pollice. “E adesso?” e lei s’alzava senza risposta, come se conoscesse i tempi atomici del raffreddamento degli ingredienti, allungava il mento verso i fornelli e ricominciava, tagliava la buccia di un’arancia e la univa all’intruglio giallo. Il profumo di quella scorze mi piaceva così tanto che scendevo dalla sedia e per qualche minuto, dimenticando la crema. Sarà stato forse quello l’odore che ha accompagnato la mia intera infanzia: acre/speziato/paglierino/dolce/malinconico/estivo.”Vieni,è pronto!” e mi sedevo vicino a lei, mangiavo piano quel panettone ancora caldo e la crema che ne attraversava il mezzo. Ogni volta che al centro del tavolo appariva un dolce era una gran festa, la mia festa con tanto di foto e candelina. E’ quel modo di sentirsi felici con poco che ora mi manca: ho tutti gli ingredienti ma non potrei mai organizzare una festa come quelle della mia infanzia intorno a un panettone. Mia madre allora tornava ai fornelli proprio quando il pomeriggio diventava una lunga ombra scura nella cucina. Non ho mai capito come facciano le madri a conoscere senza avere la percezione fisica del tempo i giusti tempi di cottura della pasta sui fornelli, di quando sia il momento di cambiare di un piano all’altro del forno un dolce, se penso proprio a mia madre come riesca a preparare la cena per un’intera famiglia, dividendosi tra il suo silenzioso e perpetuo cucito e le estrazioni metodiche del lotto sulla Rai. Io cominciavo ancora a giocare, correndo intorno al tavolo o disegnando con le dita sul vetro umido. Il mio pomeriggio era allora notte, il nero si accendeva della luce luci del lampadario al centro della stanza e il silenzio era rotto solo dal mio lamento: mia sorella Mirella m’aveva fatto cadere ancora. Ancora non mi spiego perché mi venisse voglia di correre intorno a quel tavolo e ora che di anni ne sono passati venti vorrei correre all’incontrario per far ritornare quel tempo con i suoi odori di buono e la voglia di piangere ma per un motivo valido fino al silenzio un istante prima di dormire.